La nozione di desistenza e quella di recesso: fondamento normativo e natura giuridica
INDICE: La nozione di desistenza e quella di recesso
- La nozione di ‘’desistenza’’ e quella di ‘’recesso’’: fondamento normativo e natura giuridica
- La distinzione tra le due figure in ipotesi particolari
- L’elemento soggettivo
- La desistenza ed il recesso attivo nel concorso di persone
- Il trattamento sanzionatorio
Come già detto in tema di tentativo, è possibile che il mancato compimento dell’azione criminosa o la mancata verificazione dell’evento del reato dipendano dal comportamento del reo, il quale volontariamente desiste dal portare a compimento la condotta vietata ovvero si attiva al fine di impedire la realizzazione dell’evento.
La nozione di desistenza e quella di recesso
Si distingue, in questo senso, tra desistenza e recesso attivo.
Il recesso attivo, tuttavia, non deve essere confuso con la diversa figura del ravvedimento post delictum, in quanto in quest’ultimo caso il soggetto si attiva per eliminare o attenuare gli effetti dannosi o pericolosi già verificatesi.
Secondo la giurisprudenza, in particolare, lo schema dell’impedimento volontario dell’evento (c.d. recesso attivo) si differenzia da quello dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 6, c.p. (attivo ravvedimento): nel primo caso, infatti, ad attività criminosa compiuta, e mentre è in svolgimento l’ormai autonomo processo naturale, l’agente si riattiva, interrompendo tale processo, così da impedire il verificarsi dell’evento; nel secondo, invece, a reato consumato, e quindi ad evento già verificatosi, interviene il ravvedimento dell’agente che spontaneamente ed efficacemente si adopera per attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato.
La distinzione tra le due figure della desistenza volontaria e del recesso attivo viene dunque generalmente individuata sulla base del criterio dell’esaurimento o meno dell’azione esecutiva.
Tale criterio è però criticato da altra dottrina, secondo la quale esso non consente sempre di tracciare una reale distinzione tra i due istituti.
In base a questo, infatti, si dovrebbe ritenere la sussistenza di un tentativo punibile, negandosi il trattamento premiale connesso alla desistenza, in caso di mancata ripetizione, possibile e contestuale, dell’azione tipica dopo che la precedente sia andata a vuoto.
Si pensi, per esempio, al caso di chi, dopo aver esploso un primo colpo senza attingere la vittima, rinuncia all’azione delittuosa pur potendo ancora esplodere altri colpi e, quindi, in realtà desistendo.
In secondo luogo, in alcuni casi pratici risulta sicuramente difficile determinare quando effettivamente l’azione esecutiva possa o meno dirsi esaurita.
Si discute circa il fondamento di tali istituti: secondo la teoria classica tale fondamento deve essere ravvisato in una funzione generalpreventiva, ossia nel distogliere i soggetti dalla commissione dei reati mediante l’incentivazione dell’abbandono della condotta criminosa.
Per la teoria specialpreventiva, invece, la ratio del trattamento premiare andrebbe individuata nella minore pericolosità sociale, e quindi nel minor bisogno di rieducazione di chi, abbandonando volontariamente il proposito criminoso, dimostra scarsa volontà di delinquere.
Tale opinione, però, contrasta con il diritto positivo, il quale è del tutto indifferente ai motivi dell’abbandono, potendo lo stesso essere dettato anche da motivi utilitaristici, quali ad esempio l’attesa di un momento maggiormente propizio per commettere il reato.
Lo stesso deve dirsi con riguardo alla teoria retributiva, la quale fonda il trattamento premiale sulla meritevolezza dell’impunità per colui che è tornato volontariamente al diritto;
anche questa tesi, infatti, presuppone la valutazione dei motivi della desistenza o del recesso che invece, per il nostro ordinamento, sono del tutto indifferenti.
La desistenza viene considerata quale causa di estinzione o di non punibilità del tentativo, mentre il recesso attivo costituisce una circostanza attenuante soggettiva e bilanciabile.
Come sostenuto dalla giurisprudenza, la desistenza è una esimente che esclude l’antigiuridicità del fatto, sicché la sua applicabilità presuppone che l’azione sia penalmente rilevante e sia quindi pervenuta alla fase del tentativo punibile;
inoltre, in tema di reati di danno a forma libera la desistenza può avere luogo solo nella fase del tentativo incompiuto e non è configurabile una volta che siano stati posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento, rispetto ai quali può, al più, operare la diminuente per il c.d. recesso attivo, qualora il soggetto tenga una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento.
Tradizionalmente, dunque, si ritiene che la desistenza possa aversi solo nella fase del tentativo incompiuto, ossia prima del compimento dell’azione tipica, mentre il recesso attivo solo nella fase del tentativo compiuto, cioè una volta esaurita l’azione tipica.
Nel tentativo incompiuto, quindi, l’abbandono del proposito criminoso si manifesta necessariamente nella forma della desistenza, mentre nel tentativo compiuto, non potendo bastare la semplice inattività del soggetto, occorre che quest’ultimo si attivi per impedire l’evento e, pertanto, potrà aversi solo recesso attivo stante il già avvenuto esaurimento della condotta tipica.
La nozione di desistenza e quella di recesso
La distinzione tra le due figure in ipotesi particolari
Ciò premesso, non sempre è agevole individuare nel caso concreto se ricorra l’una o l’altra figura; il problema ha notevoli risvolti pratici posto che l’ordinamento ricollega a tali istituti effetti alquanto differenti (ossia l’impunità nel primo caso e la semplice riduzione di pena nel secondo).
Nei reati di evento, in particolare, per aversi desistenza e non recesso attivo, occorre che il soggetto interrompa l’azione prima che si sia innescato il processo causale che porta alla verificazione dell’evento;
se invece la determinazione causale dello stesso è già sfuggita al suo controllo allora il soggetto, per giovarsi del trattamento premiale, dovrà attivarsi per impedire l’evento e, in tal caso, si avrà dunque recesso attivo.
Per esempio, nel caso di omicidio mediante avvelenamento desiste chi, dopo aver propinato la prima dose di veleno alla vittima, non sufficiente a cagionare il decesso, abbandona il proposito criminoso rinunciando a propinare anche le altre dosi necessarie per determinarne la morte; recede, invece, chi, dopo aver propinato una dose sufficiente a comportare la morte, impedisce che l’evento si verifichi trasportando la vittima in ospedale.
Quanto detto è confermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, nei reati di danno a forma libera, la desistenza volontaria non è configurabile una volta che siano stati posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento, rispetto ai quali può operare, se il soggetto tiene una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento, la diminuente per il c.d. recesso attivo.
Un discorso specifico va fatto con riguardo ai reati omissivi impropri, ossia quei reati caratterizzati dalla sussistenza di un evento inteso in senso naturalistico causalmente ricollegabile alla condotta omissiva del reo.
In tali reati, infatti, per distinguere si vi sia desistenza o recesso attivo occorre guardare all’azione che deve intraprendere il soggetto per evitare la consumazione del reato:
se è sufficiente porre in essere l’azione dovuta si avrà desistenza; se invece per impedire l’evento occorre porre in essere una azione diversa da quella dovuta si avrà invece recesso attivo.
La nozione di desistenza e quella di recesso
Così, nel caso della madre che abbandona l’allattamento del proprio bambino per farlo morire, si avrà desistenza nel caso in cui per evitare il decesso del piccolo sia sufficiente riprendere ad alimentarlo; vi sarà, invece, recesso qualora per salvargli la vita sia necessario portarlo all’ospedale.
Si può dire, dunque, che la desistenza si estrinseca di norma in una azione negativa, mentre il recesso in una azione positiva.
Ciò non esclude, però, che in alcuni casi eccezionali la desistenza debba realizzarsi mediante una condotta positiva come appunto nei reati omissivi impropri, ovvero che il recesso debba invece caratterizzarsi in una azione negativa.
Si pensi, per esempio, al caso di chi, rivolte minacce estorsive ad una commerciante, non si presenta a ritirare il denaro estorto.
La nozione di desistenza e quella di recesso
L’elemento soggettivo
L’art. 56, commi 3 e 4, c.p. richiede che la desistenza o il recesso attivo avvengano volontariamente.
Secondo la quasi unanime opinione della dottrina e della giurisprudenza, l’accertamento del requisito della volontarietà prescinde dal giudizio sulla ‘’meritevolezza’’ dei motivi che inducono l’agente a mutare il proposito criminoso.
Si concorda, dunque, nel ritenere che la volontarietà non equivale a spontaneità: risulta pertanto irrilevante qualsiasi considerazione sui motivi che inducono il soggetto a desistere o a recedere.
Come chiarito dalla giurisprudenza, infatti, ai fini dell’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 56 c.p., è corretta la distinzione tra spontaneità e volontarietà della desistenza, posto che la norma richiede soltanto la seconda ma non anche la spontaneità e dato che a questa non sempre corrisponde la volontarietà.
D’altra parte, quando la legge richiede il requisito della spontaneità lo indica espressamente: si pensi all’art. 62, n. 6, c.p. in tema di ravvedimento operoso.
Secondo la giurisprudenza, in particolare, perché possa effettivamente ritenersi sussistente la causa di non punibilità in esame è necessario che la volontà di desistere si sia formata per motivi di qualsiasi natura ed anche pratici, pur se si prescinde da quelli ideologici o dell’autentico pentimento.
Quando, però, i motivi di desistenza prevalgono su quelli di persistenza nell’iter criminoso a cagione di fattori esterni che coartino la volontà del reo, la quale è viziata nella sua formazione, la desistenza non può di conseguenza considerarsi volontaria.
A questo punto, però, ci si chiede quali siano i criteri da adottare per stabilire quando la scelta dell’agente possa effettivamente considerarsi libera e quando, invece, sia imposta da circostanze esterne.
Talvolta, si afferma che la libertà sia esclusa da fattori esterni che rendono irrealizzabile l’impresa criminosa; in altri casi, invece, si sostiene che la libertà di scelta è già compromessa dalla percezione soggettiva di elementi di rischio; altre volte, ancora, si ritiene che la scelta sia coartata quando la situazione apparente appare talmente rischiosa, che nessuna persona ragionevole sarebbe disposta a portare a compimento l’azione delittuosa.
Ove, pertanto, l’abbandono sia imposto da circostanze che avrebbero indotto qualunque persona ragionevole a desistere o a recedere, come per esempio nel caso del sopraggiungere della polizia, lo stesso non potrà considerarsi volontario e quindi il soggetto non potrà giovarsi del trattamento premiale.
Così, secondo la giurisprudenza di legittimità è configurabile il tentativo e non la desistenza volontaria nel caso in cui la condotta delittuosa si sia arrestata prima del verificarsi dell’evento non per volontaria iniziativa dell’agente, ma per fattori esterni che impediscano comunque la prosecuzione dell’azione o la rendano vana.
Si è infatti ritenuto configurabile il tentativo di rapina nel caso in cui l’imputato, dopo essere entrato in un esercizio commerciale con il volto travisato e con in mano un grosso coltello, intimando ai gestori di consegnarli quanto incassato, si era allontanato avendo verificato che nel registratore di cassa non vi era denaro.
Nello stesso tempo, secondo la Suprema Corte non configura un recesso attivo dal reato di omicidio la condotta di chi, avendo procurato mediante aggressione a due persone lesioni gravissime e vedendole versare in pericolo di vita, segnali alla polizia l’accaduto, qualora tale condotta possa ricondursi al calcolo opportunistico di allontanare da sé qualsiasi sospetto sulla paternità dell’aggressione perpetrata e non al fine di evitare l’evento morte.
La nozione di desistenza e quella di recesso
La desistenza ed il recesso attivo nel concorso di persone
Posto che un reato può essere realizzato attraverso il contributo di più persone, ci si chiede quale rilevanza assumano tali istituti nelle fattispecie concorsuali.
Con riferimento alla desistenza, in dottrina si sostengono due diverse teorie: secondo alcuni, infatti, per il riconoscimento della desistenza non è sufficiente che il soggetto interrompa la propria partecipazione al reato, ma è necessario che impedisca anche che il reato venga portato a compimento dagli altri correi.
Secondo altri, invece, per il riconoscimento della desistenza è sufficiente che il soggetto elida l’efficienza causale del proprio contributo.
Ovviamente, qualora il soggetto che desiste sia l’esecutore materiale della condotta tipica, la sua desistenza impedirà anche la consumazione del reato; se invece si tratta di un semplice complice, la sua desistenza non impedirà la realizzazione del reato e, affinché costui possa giovarsi del trattamento premiale connesso alla desistenza, è necessaria e sufficiente l’eliminazione del proprio contributo causale alla commissione del fatto, in modo che questo non possa in alcun modo essere ricondotto alla propria condotta.
Di questo avviso è anche la giurisprudenza, secondo la quale la desistenza postula che l’agente abbandoni l’azione criminosa prima che questa sia portata a compimento e cioè prima che egli realizzi compiutamente l’azione tipica della fattispecie incriminatrice, se trattasi di reati cosiddetti a forma vincolata, o che egli impedisca, avendone ancora il dominio, che l’azione sia completamente realizzata quando il delitto è causalmente orientato o a forma libera.
Tale criterio, però, valido nell’ipotesi di esecuzione monosoggettiva del reato, non vale allorché l’imputato che abbandona l’azione criminosa concorra con altri alla commissione del delitto;
in tal caso, infatti, il semplice abbandono o l’interruzione dell’azione criminosa, non basta perché si abbia desistenza occorrendo un quid pluris.
Questo quid pluris, tuttavia, non coincide con la necessità che il partecipe interrompa l’azione collettiva, dovendosi invece ritenere che il concorrente, per beneficiare della causa di non punibilità prevista dall’art. 56 c.p., oltre all’abbandonare l’azione criminosa, debba altresì annullare il contributo dato alla realizzazione collettiva, in modo che esso non possa essere più efficace per la prosecuzione del reato, ed eliminare le conseguenze della sua azione che fino a quel momento si sono prodotte.
La desistenza, d’altro canto, è una causa di esclusione della pena di tipo soggettivo, la quale, secondo la previsione di cui all’art. 119 c.p., si applica solo alla persona a cui si riferisce e non ai concorrenti.
Per il riconoscimento del recesso attivo, invece, è necessario che l’azione collettiva sia portata a compimento e che uno dei concorrenti abbia impedito la realizzazione dell’evento.
Il recesso è una circostanza attenuante di tipo soggettiva e, dunque, come la desistenza, si applica ai soli concorrenti cui si riferisce.
La nozione di desistenza e quella di recesso
Il trattamento sanzionatorio
Ai sensi dell’art. 56, comma 3, c.p., sei colpevole desiste volontariamente dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano di per sé un reato.
Come detto, infatti, la desistenza consiste in una vera e propria causa di esclusione della punibilità.
Ai sensi dell’art. 56, comma 4, c.p., invece, se il colpevole volontariamente impedisce il verificarsi dell’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.
Il recesso, infatti, è una semplice circostanza attenuante soggettiva e, come tale, non esclude la pena ma ne determina solo una diminuzione.
D’altra parte, quale circostanza del reato può essere oggetto del giudizio di comparazione nel caso in cui concorra con altre circostanze.
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