Il rito sommario di cognizione
Nozione
La legge n. 69 del 2009 ha inserito nel codice di procedura civile, ed in particolare nel libro IV, titolo 1, il capo III bis intitolato ‘’ del procedimento sommario di cognizione’’; tre sono le norme di nuova introduzione e cioè gli articoli 702 bis, 702 ter e 702 quater.
Il procedimento sommario di cognizione costituisce un rito speciale di cognizione, il quale si aggiunge a quello ordinario.
Parte della dottrina, invece, parla di modello di trattazione della causa semplificato all’interno del processo ordinario.
Tale procedimento risulta alternativo rispetto al rito ordinario ed è caratterizzato dalla sommarietà dell’istruzione, dall’atipicità, dalla libertà di prova, dal contraddittorio anticipato e dalla idoneità del provvedimento conclusivo a passare in giudicato.
Esso può trovare applicazione con riguardo a tutte quelle questioni che non presentano punti particolarmente controversi e che, come tali, possono essere risolte attraverso una istruzione meramente sommaria.
La sommarietà, dunque, riguarda l’istruzione probatoria ma non la cognizione, in quanto il procedimento in parola è comunque a cognizione piena, essendo diretto ad accertare in via definitiva il diritto vantato dall’attore.
Posto che l’art. 702 bis c.p.c. fa esclusivo riferimento alle cause di competenza del tribunale in composizione monocratica, si ritiene che il rito sommario di cognizione non sia applicabile alle controversie pendenti dinanzi al giudice di pace o al tribunale in composizione collegiale, a quelle attribuite in unico grado alla corte d’appello e a quelle in grado d’appello davanti al tribunale monocratico.
L’opinione dominante, d’altra parte, esclude l’applicazione del suddetto rito alle cause di lavoro e a quelle sottoposte al rito del lavoro, alle cause di opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi, nonché a quelle instaurate dopo l’emissione di un provvedimento cautelare.
Trattasi, infatti, di procedimenti già sottoposti ad un rito speciale e come tali già alternativi rispetto al processo ordinario.
Se nelle ipotesi di cui all’art. 702 bis c.p.c. la scelta del rito sommario è facoltativa, ve ne sono altre in cui essa è invece obbligatoria; trattasi, in particolare, delle materie indicate dal d.lgs. n. 150 del 2011, tra le quali rientrano,
per esempio, la liquidazione degli onorari e dei diritti degli avvocati, le opposizioni ai decreti per il pagamento di spese di giustizia, le opposizioni alla convalida del trattamento sanitario obbligatorio, le opposizioni alla stima nelle espropriazioni per pubblica utilità, il mancato riconoscimento del diritto di soggiorno.
INDICE – Il rito sommario di cognizione
- La fase di introduzione del giudizio
- L’udienza di prima comparizione delle parti
- Le facoltà delle parti
- L’attività istruttoria e l’ordinanza di decisione
- Il giudizio d’appello
- I provvedimenti impugnabili
Il rito sommario di cognizione
La fase di introduzione del giudizio
Come previsto dall’art. 702 bis, comma 1, c.p.c., nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, la domanda può essere proposta con ricorso al tribunale competente.
Il ricorso, sottoscritto a norma dell’art. 125 c.p.c., deve contenere tutte le informazioni di cui all’art. 163 c.p.c., ossia l’indicazione del tribunale al quale la domanda è proposta, i dati identificativi delle parti, la determinazione della cosa oggetto della domanda, l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le
ragioni della domanda, l’indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l’attore intende valersi ed i documenti che si offrono in comunicazione, il nome e cognome del procuratore con l’indicazione della procura, nonché l’indicazione del giorno dell’udienza di comparizione con l’invito a costituirsi nel termine di venti giorni prima
dell’udienza indicata, ovvero di dieci giorni prima in caso di abbreviazione dei termini, con l’avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di cui agli articoli 38 e 167 c.p.c.
A seguito della presentazione del ricorso il cancelliere forma il fascicolo d’ufficio e lo presenta senza ritardo al presidente del tribunale, il quale designa il magistrato cui è affidata la trattazione del procedimento (art. 702 bis, comma 2, c.p.c.).
Il giudice designato fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti, assegnando il termine per la costituzione del convenuto, che deve avvenire non oltre dieci giorni prima dell’udienza;
il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato al convenuto almeno trenta giorni prima della data fissata per la costituzione (art. 702 bis, comma 3, c.p.c.).
Secondo la giurisprudenza più recente, la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti è a carico del ricorrente, il quale dovrà provvedere alla notifica entro il termine stabilito pena il rigetto della domanda.
Si suole distinguere, in particolare, tra notifica omessa o inesistente, che determina l’improcedibilità della domanda, e notifica meramente nulla, la quale può invece essere rinnovata ex art. 291 c.p.c.
Il convenuto deve costituirsi mediante deposito in cancelleria della comparsa di risposta, nella quale deve proporre le sue difese e prendere posizione sui fatti posti dal ricorrente a fondamento della domanda, indicare
i mezzi di prova di cui intende avvalersi ed i documenti che offre in comunicazione, nonché formulare le conclusioni; a pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio (art. 702 bis, comma 4, c.p.c.).
Se il convenuto intende chiamare un terzo in garanzia deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella comparsa di costituzione e chiedere al giudice designato lo spostamento dell’udienza.
Il giudice, con decreto comunicato dal cancelliere alle parti costituite, provvede a fissare la data della nuova udienza, assegnando un termine perentorio per la citazione del terzo (art. 702 bis, comma 5, c.p.c.).
Nonostante la norma contempli la sola chiamata in garanzia, alcuni autori hanno ritenuto irragionevole escludere la chiamata per comunanza di causa.
Di opinione diversa è invece altra parte della dottrina, secondo la quale solo la chiamata in garanzia appare coerente con la sommarietà del procedimento.
Sulla base della lettera della norma, dunque, le uniche attività che, a pena di decadenza, devono essere esercitate dal convenuto nella comparsa di risposta sono la presentazione di eventuali domande riconvenzionali, la proposizione di eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio e la chiamata in causa del terzo.
Non è invece onere sottoposto a decadenza quello inerente all’indicazione delle prove delle quali si chiede l’ammissione.
Si ritiene, infatti, che le parti possano articolare i propri mezzi istruttori e produrre i documenti che considerano rilevanti sino all’udienza di comparizione davanti al giudice.
Ci si interroga, piuttosto, in ordine alla possibilità per le parti di ottenere un termine ulteriore entro il quale presentare le proprie richieste istruttorie, così come avviene nel processo ordinario ex art. 183 c.p.c.
Sebbene l’art. 702 bis c.p.c. non faccia alcun riferimento a riguardo, si ritiene inoltre che sia onere del convenuto contestare i fatti posti a fondamento della domanda da parte dell’attore, dovendosi applicare anche
nel processo sommario di cognizione l’art. 115 c.p.c., secondo il quale il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.
Secondo la giurisprudenza, in particolare, l’onere di contestazione deve essere esercitato con il primo atto utile e dunque con la comparsa di costituzione e risposta.
Il rito sommario di cognizione
L’udienza di prima comparizione delle parti
I poteri del giudice
I provvedimenti che il giudice può adottare nella prima udienza di comparizione delle parti sono indicati dall’art. 702 ter c.p.c.
Come espressamente previsto da tale norma, il giudice può dichiararsi incompetente con ordinanza, ovvero affermare con ordinanza non impugnabile l’inammissibilità del ricorso o dell’eventuale domanda riconvenzionale, in quanto non rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 702 bis c.p.c.
In ossequio ai principi generali in materia, l’ordinanza con la quale il giudice si dichiara incompetente è impugnabile esclusivamente con il regolamento di competenza.
L’opinione prevalente, invece, esclude che l’ordinanza – attraverso la quale il giudice dichiara l’inammissibilità del ricorso o dell’eventuale domanda riconvenzionale in quanto non rientranti nell’ambito di applicazione del
rito sommario di cognizione, ritenuta espressamente non impugnabile dall’art. 702 ter c.p.c. – sia sindacabile con il ricorso straordinario per cassazione.
Secondo quanto sancito dalla disposizione, d’altra parte, spetta al giudice valutare se la causa consenta effettivamente un’istruzione sommaria:
nel caso in cui ritenga che le difese svolte dalle parti necessitino di una istruzione non sommaria, fissa, con ordinanza non impugnabile, l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.;
qualora, invece, è la causa relativa alla domanda riconvenzionale a richiedere una istruzione non sommaria, ne dispone la separazione.
Se non provvede in tale senso, alla prima udienza il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in
relazione all’oggetto del provvedimento richiesto e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande (art. 702 ter, comma 5, c.p.c.).
Se il giudice non si dichiara incompetente, non dichiara la domanda inammissibile ovvero non trasforma il procedimento in ordinario, procederà dunque all’assunzione degli atti di istruzione che ritiene rilevanti e all’accoglimento o rigetto del ricorso con ordinanza.
Come previsto dal quarto comma dell’art. 702 ter c.p.c., quando la causa relativa alla domanda riconvenzionale richiede una istruzione non sommaria, il giudice ne dispone la separazione.
Stante l’idoneità dell’ordinanza che conclude il procedimento a passare in giudicato, si discute in ordine all’ambito di applicazione del suddetto potere di separazione, posto che il suo esercizio potrebbe comportare un contrasto tra giudicati.
Si ritiene, dunque, che la separazione della domanda riconvenzionale sia possibile ogni qualvolta ciò non comporti un possibile conflitto tra giudicati e non sussista pertanto la necessità di una trattazione congiunta con rito ordinario. In tale eventualità, il giudice dovrà sempre disporre la trasformazione del rito sommario in rito ordinario.
La separazione della domanda riconvenzionale non costituisce quindi sempre un obbligo per il giudice, al quale deve essere riconosciuta la possibilità di disporre la trattazione unitaria col rito ordinario tutte le volte in cui la domanda riconvenzionale porti con sé la necessità di una istruzione non sommaria per entrambe le cause.
Nella prima udienza di comparizione delle parti, d’altra parte, in ossequio a quanto previsto in via generale con riguardo al processo ordinario, è consentito al giudice richiedere alle parti i chiarimenti necessari sulla base dei
fatti allegati, indicare le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione, disporre il tentativo di conciliazione, nonché interrogare liberamente le parti presenti.
Il rito sommario di cognizione
Le facoltà delle parti
Ciò premesso, ci si chiede invece quali siano le facoltà esercitabili dalle parti nell’udienza di prima comparazione.
Secondo quanto previsto dall’art. 183 c.p.c. con riguardo al processo ordinario, all’attore è consentito proporre domande ed eccezioni nuove a condizione che siano la conseguenza delle domande e delle eccezioni sollevate dal convenuto.
Nessuno dubbio sussiste in ordine alla possibilità per l’attore di proporre eccezioni nuove in risposta alle difese svolte dal convenuto, atteso che il suddetto potere costituisce esercizio del diritto di difesa, il quale non può in nessun caso subire delle limitazioni.
Più discussa è invece, secondo la dottrina, la facoltà dell’attore di presentare domande nuove, posto che è consentito al legislatore di imporre delle limitazioni alle domande che possono essere proposte nel corso del
giudizio al fine di garantire la sua trattazione entro un termine ragionevole e stante, in ogni caso, la possibilità della parte di instaurare un nuovo giudizio.
Secondo l’opinione dominante, così come avviene nel processo ordinario l’attore sarebbe libero di proporre anche domande nuove.
In tale caso, il giudice potrebbe separare la domanda nuova dell’attore da quella originaria, ovvero disporre che la trattazione di tutte le domande avvenga secondo il rito ordinario.
Qualora il giudice ritenga di dover fissare l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., l’opinione dominante ritiene che le parti non siano tenute in tale sede a riproporre le domande, le eccezioni e l’eventuale chiamata in causa del
terzo. Una volta proposta la nuova domanda o la nuova eccezione o chiesta l’autorizzazione alla chiamata in causa del terzo, infatti, l’orientamento maggioritario esclude la necessità di una riproposizione specifica, essendo sufficiente il richiamo alle richieste già verbalizzate alla precedente udienza.
Si ritiene, d’altra parte, che nemmeno il silenzio, l’assenza ovvero la richiesta del triplo termine possano lasciar presumere l’abbandono delle domande e delle eccezioni in precedenza proposte.
Quanto alla chiamata in causa del terzo da parte dell’attore, si ritiene necessaria l’autorizzazione del giudice anche nel rito sommario di cognizione; in caso di esito positivo, il giudice fisserà dunque una nuova udienza al fine di consentire all’attore di effettuare la chiamata in causa.
Chiaro, poi, che in caso di accoglimento dell’orientamento restrittivo in materia, secondo il quale la chiamata in causa del terzo da parte del convenuto sarebbe consentita solo per ragioni di garanzia, così come espressamente sancito dall’ultimo comma dell’art. 702 bis c.p.c., anche l’attore dovrà quindi ritenersi vincolato a tale limitazione, non essendo sicuramente possibile una disparità di trattamento tra le parti in causa.
Nell’art. 702 ter c.p.c. manca, infine, uno esplicito riferimento all’attività di precisazione e di modificazione della domande, eccezioni e conclusioni già formulate. Si ritiene, in particolare, che l’assenza di un espresso divieto o limitazione in tal senso – come avviene per esempio nel rito del lavoro, dove l’emendatio delle domande e
delle eccezioni è subordinata alla presenza di gravi motivi e all’autorizzazione del giudice – consenta alle parti di procedere alla suddetta modificazione o precisazione.
Il rito sommario di cognizione
L’attività istruttoria e l’ordinanza di decisione
Così come espressamente previsto dall’art. 702 ter c.p.c., il giudice, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande.
Secondo parte della dottrina, nel procedimento sommario di cognizione non esistono preclusioni e decadenze e le parti hanno pertanto la possibilità, nel corso di tutto il processo, di proporre nuove istanze istruttorie e nuovi documenti, con il solo limite del rispetto del contraddittorio.
Di contrario avviso è invece l’opinione maggioritaria, secondo la quale il principio di preclusione, più o meno stringente a seconda dei casi, riguarda tutti i procedimenti di cognizione disciplinati dalla legge, compreso quello sommario.
Secondo tale concezione, in particolare, è all’udienza di trattazione che maturano tutte le preclusioni. In tale udienza le parti hanno quindi l’onere di indicare tutti i mezzi di prova diretta e contraria di cui intendono
avvalersi e, solo qualora l’indicazione della prova diretta o contraria, sia resa necessaria dall’attività di precisazione e modificazione delle domande e delle eccezioni, allora potrà essere concesso un termine per indicare e produrre le suddette prove.
Detto questo, ci si chiede come debba essere interpretata l’espressione utilizzata dall’art. 702 ter c.p.c. ‘’atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto’’.
Ci si interroga, in particolare, in ordine alla facoltà per il giudice di disporre d’ufficio l’assunzione di prove, nonché sulla possibilità di ammettere delle deroghe al regime delle prove previsto dal codice di rito e, nello
specifico, sulla eventualità di ammettere prove c.d. atipiche, ossia non previste espressamente dalla legge, nonché sulla possibilità di assumere le prove con modalità diverse da quelle indicate dalla normativa processuale.
In primo luogo occorre precisare che, in ossequio al principio dispositivo, l’opinione maggioritaria ritiene che le prove ammesse ed assunte possano essere solo quelle proposte dalle parti, salve le eccezioni previste dal codice.
Al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge, dunque, sarebbe precluso per il giudice disporre d’ufficio l’assunzione di prove.
Anche nel rito sommario, analogamente a quanto avviene nel processo ordinario, il giudice potrà quindi disporre l’interrogatorio libero delle parti ex art. 117 c.p.c., richiedere la CTU ex art. 191 c.p.c., disporre l’ispezione
di persone e cose ex art. 118 c.p.c. nonché la prova testimoniale ex art. 281 ter c.p.c., richiedere informazioni alla p.a. ex art. 213 c.p.c. e deferire il giuramento suppletorio ex art. 240 c.p.c.
Sono invece riservati alla parte, così come previsto in via generale dalla legge, le produzioni documentali, il deferimento dell’interrogatorio formale, l’ordine di esibizione ed il giuramento decisorio.
Nessuna differenza rispetto al rito ordinario sussiste poi con riferimento alle c.d. prove atipiche, le quali possono essere utilizzate dal giudice come argomento di prova o come indizi.
Si pensi, per esempio, agli scritti provenienti da un terzo, agli atti di notorietà, alle certificazioni amministrative, ai verbali di prova di altro procedimento o ai verbali di polizia giudiziaria.
Con riguardo, infine, alla possibilità di assumere con modalità atipiche prove tipiche, si discute se anche nel rito sommario possano trovare applicazione le indicazioni fornite dalla prassi in tema di processo cautelare.
Ci si chiede, in particolare, se i testimoni possano essere sentiti anche senza la rituale dichiarazione di impegno, senza una preventiva capitolazione e anche su fatti diversi dalle circostanze eventualmente capitolate.
In merito alla CTU, invece, ci si chiede se l’ausiliario possa riferire le sue conclusioni anche oralmente e se l’incarico possa essere conferito anche senza previa determinazione dei quesiti.
Quanto alla testimonianza, l’opinione prevalente ritiene che essa debba essere assunta, a differenza di quanto avviene nella fase sommaria dei procedimenti cautelari, con la dichiarazione di impegno del testimone e con la
previa formulazione dei capitoli. Con riguardo alla CTU, invece, non può escludersi la possibilità per il giudice di autorizzare il consulente a rendere le proprie conclusioni oralmente.
Come previsto dal quinto comma dell’art. 702 ter c.p.c., una volta compiuti gli atti di istruzione che ritiene rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto, il giudice provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande.
Nonostante la legge nulla dica a riguardo, si ritiene necessaria la precisazione delle conclusioni ad opera delle parti per consentire al giudice di conoscere le domande e le eccezioni sulle quali pronunciarsi.
Si ritiene, d’altra parte, che il giudice possa, quando strettamente necessario, fissare un termine per lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica ex art. 190 c.p.c., nonché disporre la discussione orale della causa, ex art. 281 sexies c.p.c., dopo la precisazione delle conclusioni.
L’ordinanza di decisione è provvisoriamente esecutiva e costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione (art. 702, comma 6, ter c.p.c.).
Il rito sommario di cognizione
Il giudizio d’appello
La disciplina del procedimento
Ai sensi dell’art. 702 quater c.p.c., l’ordinanza così emessa produce gli effetti di cui all’art. 2909 c.c. se non è appellata entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione.
Il giudizio d’appello deve quindi essere introdotto entro il termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento a cura della cancelleria, ovvero dalla notificazione di parte avversaria se precedente.
Anche la sola comunicazione da parte della cancelleria, dunque, è sufficiente a far decorrere il termine breve per l’impugnazione dell’ordinanza.
Come rilevato da attenta dottrina, dalla previsione della decorrenza del termine per l’impugnazione dalla comunicazione, oltre che dalla notifica, traspare evidente l’intento acceleratorio del processo.
A differenza di quanto previsto con riguardo al procedimento cautelare, tuttavia, la legge nulla dice in ordine alla decorrenza del termine di impugnazione nel caso in cui la pronuncia dell’ordinanza sia avvenuta in udienza.
Dal momento che non è prevista la comunicazione del provvedimento pronunciato in udienza, dunque, si potrebbe ritenere che il termine per l’impugnazione decorra dalla notifica.
Sicché, considerato che, in ossequio alle esigenze di celerità che caratterizzano tale rito, nel procedimento sommario non dovrebbe trovare applicazione il termine lungo per l’impugnazione, si potrebbe persino ritenere che, in mancanza di notifica, il provvedimento non passerebbe mai in giudicato.
Detto questo, stante l’assurdità di tale conclusione, sembra corretto ritenere che la decorrenza del termine per l’impugnazione dell’ordinanza decorra dalla data dell’udienza nella quale è pronunciata.
In conformità alle norme generali dettate in tema, l’appello deve essere introdotto mediante citazione. Ciò nonostante, per il principio di conservazione degli atti di gravame non può ritenersi inammissibile l’appello
presentato mediante ricorso; in questo caso, però, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte, al fine di accertare la tempestività del gravame occorre tener conto oltre che della data del deposito, anche di quella della notifica alla parte appellata, la quale deve essere avvenuta nel termine di trenta giorni indicato dall’art. 702 quater c.p.c.
Come previsto dall’art. 702 quater c.p.c., nel giudizio di appello sono ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando il collegio li ritiene indispensabili ai fini della decisione, ovvero la parte dimostra di non
averli potuto proporli nel corso del procedimento sommario per causa ad essa non imputabile. Il presidente del collegio può delegare l’assunzione dei mezzi istruttori ad uno dei componenti del collegio.
Quanto alle allegazioni, invece, nel silenzio della legge si ritiene che la norma di riferimento sia l’art. 345 c.p.c., secondo il quale nel giudizio di appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio.
Possono tuttavia domandarsi gli interessi e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza di primo grado; d’altra parte, non possono proporsi nuove eccezioni che non siano rilevabili d’ufficio.
Il rito sommario di cognizione
I provvedimenti impugnabili
Detto questo, ci si chiede quale siano effettivamente i provvedimenti che possono essere appellati.
A tal riguardo la legge non fornisce un’indicazione chiara ed univoca, in quanto non individua tutti i possibili provvedimenti che possono essere pronunciati in primo grado e, nello stesso tempo, non sempre ne indica il mezzo di impugnazione.
A mente del primo comma dell’art. 702 ter c.p.c., il giudice che si ritiene incompetente deve pronunciarsi mediante ordinanza. In analogia a quanto previsto con riguardo all’ordinanza che definisce il giudizio ai sensi
degli articoli 39 e 40 c.p.c., tale provvedimento deve ritenersi impugnabile solamente mediante regolamento di competenza.
Non potrà essere oggetto di appello, d’altra parte, l’ordinanza con la quale il giudice adito dichiara che la causa non rientra tra quelle alle quali è applicabile il rito sommario; essa, infatti, è dichiarata espressamente non impugnabile dallo stesso art. 702 ter c.p.c.
Nello stesso tempo, per espressa affermazione di legge non è impugnabile l’ordinanza con la quale il giudice fissa l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., ritenendo che le difese svolte dalle parti richiedano un’istruzione non sommaria.
Al contrario, l’opinione prevalente ritiene invece assolutamente impugnabili mediante appello tutti gli altri provvedimenti di rigetto in rito, diversi da quelli relativi alla competenza.
Si sostiene, infatti, che il regime normale di un provvedimento è la sua impugnabilità, tanto più quando si tratta di decisione che definisca un giudizio, sicché la deroga a tale regola deve essere espressa.
Non a caso, nella disciplina del processo sommario, quando la legge ha voluto derogare a tale regola, lo ha fatto espressamente; si pensi, in particolare, alle ordinanze di cui all’art. 702 ter, commi 2 e 3, c.p.c.
Il silenzio legislativo, dunque, non dovrebbe essere di ostacolo alla possibilità di affermare l’impugnabilità dei provvedimenti, diversi da quelli declinatori di competenza, che definiscono in rito il giudizio;
impugnabilità che, in carenza di esplicita previsione, va presentata con le forme dell’appello.
Da ultimo, occorre considerare quelle controversie attribuite al tribunale in composizione monocratica in un unico grado.
La questione si pone in quanto tali cause, se promosse con le forme ordinarie, sarebbero inappellabili; mentre, sulla base della lettera della legge, l’instaurazione del rito sommario si conclude sempre con un provvedimento appellabile.
Detto questo, sul presupposto che la parte non può eludere le prescrizioni legislative in tema di impugnazione dei provvedimenti utilizzando un rito diverso da quello ordinario, deve ritenersi che il richiamo all’appello
contenuto nell’art. 702 quater c.p.c. possa essere riferito alle sole ipotesi in cui l’appello sarebbe proponibile anche se la causa fosse stata instaurata con il rito ordinario.
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